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Sette giorni per i lupi Sette giorni per i lupi (RVH, #2)
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Ascesa alle Tenebre Ascesa alle Tenebre (RVH, #1)
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PROLOGO

 

Parigi, 20 Aprile.

 

 

 

 

Mi chiamo Raistan Van Hoeck.

Sono un vampiro.

 

 

Forse qualcuno di voi avrà già sentito parlare di me, visto che la cronaca della serata che mi è quasi costata la vita è apparsa come racconto di fantasia in una raccolta: unico argomento, il soprannaturale. Per chi non ne sapesse niente, circa tre mesi fa sono stato salvato da un attacco dei miei eterni avversari, i licantropi, da una gentile famiglia di umani e dal successivo, insperato intervento dei fratelli del Clan cui appartengo, i Diurni.

Non esagero nell’affermare che quest’evento ha rimesso in discussione tutta la mia esistenza e il suo significato. Nei giorni trascorsi da allora, mentre affrontavo la lenta e dolorosa convalescenza che mi ha condotto alla guarigione, ho tentato di ripercorrere con la memoria i 305 anni che compongono la mia vita finora, spesso con risultati deludenti. Mentre mi trovavo in compagnia degli umani, mi sono reso conto di quanto raramente, in questi tre secoli, io mi sia concesso di ripensare al passato, sia al periodo che precede la mia trasformazione, sia a quello successivo. Mi sono accorto che interi decenni della mia esistenza erano stati quasi cancellati dalla mia memoria e con essi i sentimenti che li permeavano. Non ricordavo più il volto dei miei genitori, di mio fratello, non sapevo neanche più dire con sicurezza se mai avessi avuto dei fratelli; tutto quello che riguardava la mia vita da umano, nonché i miei primi duecento anni come vampiro, erano stati inghiottiti da un buco nero di dimensioni apocalittiche.

Ho deciso che non potevo più accettare questo stato di cose, questa vita unidimensionale che stavo vivendo, così, nelle lunghe settimane in cui non potevo far altro che sorseggiare sacche di sangue e contorcermi per il dolore, ho imposto alla mia memoria di scendere sempre più in profondità dentro me stesso per ritrovare quello che avevo perso. Ho scovato momenti di vera crudeltà, di follia totale, mi sono obbligato ad analizzare i sentimenti che questi eventi mi provocavano – ahimè, il rimorso per la maggior parte di essi non è nelle mie corde e questo dovrebbe dirla tutta sulla mia bontà d’animo – ma ho anche ricordato cose piacevoli, quelle sensazioni che dagli Andrews non ero riuscito a evocare: anch’io ho amato e sono stato amato, e questa consapevolezza, da sola, dà un senso alla mia esistenza. Quale, lo giudicherete voi, se avrete la volontà e la pazienza di seguirmi nel lungo viaggio che mi appresto a compiere.

Mettetevi comodi, il sole è tramontato e un vampiro è ansioso di raccontare la sua storia.

 

 

 

 

 

 PARTE I

UMANO

1677-1705

 

 

 1

OLANDA, FINE 1600

 

Se la memoria non mi inganna, la mia vita da umano inizia nel 1677 in un villaggio a pochi chilometri da Amsterdam. Ricordo una bella casa, mobili decorosi in un tempo in cui già possedere mobilia era un lusso. La mia dimora dominava il villaggio e le sue casupole e dalla finestra della mia stanza potevo scorgere, nelle giornate più limpide, la stessa Amsterdam e poi il mare.

Non ricordo la professione di mio padre, Hans Van Hoeck, ma rammento il suo aspetto, la sua statura e imponenza fisica che tanto mi intimidivano da piccolo. Non ero un bambino robusto, io: avevo preso da mia madre, con i suoi capelli di un biondo chiarissimo, gli occhi celesti e un fisico molto delicato. Anch’io ero piccolo e pallido, quasi femmineo, e credo che mio padre si sentisse a disagio in mia presenza, come se temesse che, sfiorandomi, avrebbe potuto mandarmi in mille pezzi come un ninnolo di porcellana. Le sue manifestazioni d’affetto, quindi, si limitavano a qualche buffetto sulla testa donato con aria distratta, più raramente di quanto avrei desiderato.

Avevo un fratello più grande di parecchi anni, almeno dieci, credo, di nome Lars, di cui non ricordo un granché perché era spesso in viaggio con mio padre e che invidiavo molto per tutto il tempo che poteva trascorrere con lui. Quand’era a casa, mi degnava delle attenzioni che si potrebbero dedicare a un animale domestico o poco più. Anche lui era alto e robusto, con i capelli rossi e gli stessi fiammeggianti occhi verdi di mio padre; loro due andavano d’amore e d’accordo e io non sopportavo lo sguardo adorante con cui mio padre lo guardava, se paragonato alle occhiate sempre un po’ corrucciate con cui squadrava me. Non che mi trattassero male, vedete; semplicemente, per loro ero invisibile per la maggior parte del tempo.

Se mio padre si fosse preso la briga di trascorrere con me un po’ del suo tempo, si sarebbe accorto che supplivo alla mancanza di una costituzione robusta con velocità e agilità fuori dal comune. Avevamo una quercia gigantesca nel giardino, e il mio gioco preferito era scalarla nel più breve tempo possibile e raggiungerne la vetta. Conoscevo ogni ramo, ogni venatura della corteccia, ogni più piccola fessura in cui infilare un piede o una mano per salire su, su, sempre più su. Arrivato in cima, spesso mi sedevo tra le fronde e sbirciavo, invisibile a tutti, la vita oltre il muro di cinta del mio giardino.

A quel tempo, l’istruzione ai bambini di buona famiglia era impartita a casa, attraverso istitutori privati; noi non facevamo eccezione, quindi le occasioni per uscire e giocare con i miei coetanei erano ridotte a zero. Ero un bambino molto solo e tale mi sentivo. Invidiavo i figli dei contadini che scorrazzavano tutto il giorno in giro per i campi, avrei dato tutto quello che possedevo, per essere al loro posto. Un giorno, quindi, decisi di varcare il muro di cinta e di mettermi alla ricerca di qualcuno con cui giocare. Usando i rami più bassi della mia amica quercia, gattonai fino a trovarmi sospeso a qualche metro di altezza al di sopra del viottolo che costeggiava la nostra proprietà, poi mi lasciai andare e atterrai come un gatto sulla strada, guardandomi con trepidazione alle spalle per il timore che qualcuno, dalla casa, mi avesse visto. Alcuni campi si estendevano davanti a me, per poi fare spazio alle case qualche chilometro più in là.

Ricordo di essere rimasto immobile per qualche istante, intimidito da tutto quello spazio che mi circondava: il mio orizzonte era sempre stato piuttosto ristretto. Avevo un padre e un fratello che giravano il mondo, e io ero uscito di casa soltanto in carrozza e solo per motivi particolari, tipo far visita ai parenti ad Amsterdam in occasione delle festività.

M’incamminai nei campi con passo baldanzoso, deciso a cercare qualcuno con cui fare amicizia. I bambini di oggi, ricchi o meno, vestono tutti allo stesso modo; a quei tempi no. C’era un abisso tra la qualità degli indumenti di uno come me e quella dei figli dei contadini che io invidiavo, me ne sarei accorto presto. Un’altra cosa che avrei presto compreso era che anch’io potevo essere oggetto d’invidia, e che essa, spesso, è pericolosa per chi ne è il bersaglio. Scorsi in lontananza un gruppetto di ragazzini radunati presso un albero sul confine del campo che stavo attraversando e il cuore prese a battermi fortissimo. Accelerai il passo e li raggiunsi, sfoderando il mio miglior sorriso. Dovevo aver circa nove anni, in quell’occasione; i bambini che avevo davanti dimostravano qualche anno in più. I loro occhi, erano vecchi, e se ne stavano lì a fissarmi come se avessero visto un drago a sette teste.

«Ciao, io mi chiamo Raistan, posso giocare con voi?» chiesi, col cuore che batteva sempre più forte. In quel momento non notai la loro estrema sporcizia, i cenci che indossavano, i capelli arruffati. Non mi importava, purché giocassero con me e alleviassero la mia solitudine. Nessuno rispose, ma un bambino un po’ più grande degli altri, spaventosamente magro e con gli occhi di due colori diversi, avanzò verso di me e stirò le labbra in una smorfia che poteva assomigliare a un sorriso.

«E tu da dove spunti?»

Mi voltai e indicai la casa bianca alle mie spalle, accorgendomi solo in quel momento di quanta strada avessi percorso.

«Ahh, sei un Van Hoeck… che dite, ragazzi, lo facciamo giocare?»

«Ma sì, dai. Più siamo, più ci divertiamo, in fondo». aggiunse un altro ragazzino alle spalle del primo e tutti si misero a ridere. Io scoppiavo di felicità. Se avessi osato, mi sarei messo a saltare di gioia lì sul posto.

«Grazie! A che cosa giochiamo?» chiesi, pieno di entusiasmo.

«Alla…caccia alla volpe. Tutti d’accordo?» i ragazzini annuirono all’unisono, poi il capo guardò me: «Tu sai giocare?»

«No, ma posso imparare. Come si fa?»

«È semplice. Uno fa la volpe, gli altri sono i cani. Se lo prendono, lo sbranano. E tu…sei la volpe. Giusto, ragazzi?»

Avrei dovuto intuire che c’era qualcosa di minaccioso, in quella proposta, ma ero troppo felice, troppo ansioso di integrarmi nel gruppo, per protestare. E poi sapevo di essere molto veloce, di sicuro non sarebbe stato facile prendermi, e avrei suscitato la loro ammirazione.

«Giusto!» gridarono in coro.

«Bene…come hai detto che ti chiami?»

«Raistan!»

«Bene, Raistan. Sei pronto?»

Annuii e mi misi in posizione, poi al via schizzai come un proiettile attraverso i campi. Mi guardai alle spalle e vidi che li avevo già distanziati, per cui decisi di rallentare un po’. Il capo era più veloce di tutti gli altri, ma correva con passo pesante e scoordinato, una smorfia di rabbia sul viso sporco. Feci due giri in tondo tanto per farlo avvicinare ancora; quando lessi sul suo viso la certezza di avermi preso, scattai di nuovo in avanti, ridendo. Ricordo ogni cosa… il sole caldo sul viso e sulla schiena, il profumo dell’erba, il frinire dei grilli, e io che mi sentivo libero come non mai. Poi caddi, e tutto cambiò.

Inciampai in un avvallamento del terreno, volai in avanti e mi sbucciai il palmo delle mani e le ginocchia. Un classico. Solo che, quando mi voltai, mi vidi piombare addosso il ragazzino grande e fui sommerso da una gragnola di calci e pugni, prima da lui, poi da tutta la banda.

«Ammazziamo la volpe!» gridavano, sordi alle mie proteste e alle mie grida, e continuavano a picchiare, picchiare, picchiare. Sentii le labbra che si spaccavano sui denti, poi un pugno particolarmente forte, in un occhio, fece esplodere un lampo bianco nella mia visuale e per un po’ non vidi né sentii più nulla.

Il mio bel sogno si era trasformato in un incubo e io ero in un campo con sette o otto ragazzini che non smettevano più di massacrarmi. Prima di perdere i sensi, ricordo di essermi chiesto il perché di tutto quello, ma soltanto parecchio tempo dopo sarei stato in grado di darmi la risposta da solo.

Quando mi svegliai, erano passate ore, perché il sole era molto più basso sull’orizzonte. Mia madre doveva essere fuori di sé per la preoccupazione e mio padre…non osavo immaginare quale sarebbe stata la sua reazione. Piansi di rabbia, di dolore e per la delusione e quando abbassai gli occhi e mi resi conto che mi avevano rubato i vestiti, tranne la biancheria, tutta sporca e strappata, piansi di nuovo. Avevo male dappertutto, sentivo un fastidioso ronzio nelle orecchie e perdevo sangue dal naso e dal labbro spaccato; il tratto di strada fino a casa fu penoso.

Sentii chiamare il mio nome quando mancavano ancora decine di metri al cancello della nostra proprietà; evidentemente, tutti, dai famigliari alla servitù, erano in giro a cercarmi. Il mio cuore sprofondò ancora un po’. Quando infine mi videro…l’apocalisse, in confronto, sarà un semplice temporale.

Mia madre gridò e per poco non svenne; mio padre imprecò e divenne paonazzo; mio fratello alzò gli occhi al cielo e rientrò in casa; i servitori si precipitarono in massa verso il cancello, compresa la mia balia, Annika, cento chili per un metro e mezzo di altezza, che strillò e rotolò fin lì strappandosi la cuffia dalla testa per la disperazione. Avrei riso, come faccio adesso, se non fossi stato tanto male, e tanto umiliato. Il cancello fu spalancato e mio padre mi prese fra le braccia, trasportandomi in casa e adagiandomi sul letto. Fu l’unica cosa positiva di quella terribile giornata, poi iniziò il terzo grado. Tutti volevano sapere che cosa fosse successo, dove fossi stato, chi mi avesse conciato in quel modo, ma io non volli rispondere a nessuna domanda. In realtà non potevo: ogni volta che ci ripensavo, mi saliva in gola un groppo enorme e non volevo piangere davanti a loro. Il mio orgoglio aveva già subito un colpo quasi letale quando ero stato costretto a presentarmi al cancello in mutande.

Mia madre, di solito timida e sottomessa, prese le redini della situazione e fece uscire tutti dalla stanza, compreso mio padre che non aveva smesso un attimo di tempestarmi di domande, ordinandogli di chiamare il dottore; quando fummo soli, mi ripulì con un panno bagnato dal sangue rappreso e dalla sporcizia, mi aiutò a indossare una camicia da notte pulita e mi rimboccò le coperte fin sotto il mento. In tutto questo tempo non mi disse nemmeno una parola, né mi guardò mai negli occhi, ma i suoi gesti, a volte bruschi, indicavano un grande sforzo interiore per permettermi di tranquillizzarmi senza ulteriori pressioni. Fui io, a parlare: con lei avrei anche potuto piangere e non mi sarei vergognato troppo.

«Mi dispiace di avervi fatto preoccupare, mamma – a quel tempo si dava del Voi, ai genitori – volevo solo trovare un amico con cui giocare.»

Lei mi accarezzò i capelli tanto simili ai suoi: «Sono stati i bambini del villaggio, a farti questo?»

Annuii, sentendo le lacrime molto prossime a sgorgare di nuovo.

«Ti senti solo vero, mijn Engel?» mi chiamava sempre ‘mio angelo’, adesso lo ricordo. Nella sua bocca, anche quella parola dal suono così duro, suonava dolce.

Annuii ancora e questa volta mi buttai tra le sue braccia e piansi tutte le lacrime che avevo tentato di trattenere per non sembrare un bambino. Ma ero un bambino, e avevo bisogno di quell’abbraccio più di ogni altra cosa. Lei c’era sempre, quando il mondo mi crollava attorno, e solo adesso mi rendo conto della mia fortuna. A quel tempo i figli delle famiglie ricche erano allevati dalle balie; i contatti con le loro vere madri erano ridotti all’osso, molto spesso perché le suddette non avevano nessuna voglia di occuparsi della prole di un uomo sposato per gli interessi delle famiglie d’origine. Non so bene quali motivi spinsero i miei a sposarsi, ma lei non si comportò mai con freddezza con noi figli, e la ricordo molto presente e molto dolce, sebbene non molto loquace. E dire che, sette anni dopo, avrei dovuto abbandonarla per non rivederla più, non da umano…ma questa è un’altra storia che vi racconterò a suo tempo.

 

Il dottore venne e di sicuro non fu decisivo per la mia guarigione. Allora, i medici erano poco più che stregoni e non di rado facevano aggravare le condizioni dei loro pazienti con rimedi a dir poco fantasiosi. Le mie ferite fisiche guarirono abbastanza in fretta, lo stesso non si può dire per quelle dello spirito. Mio padre mi aveva confinato in camera mia per due settimane e mia madre non aveva osato opporglisi; in realtà mi avevano fatto un favore. Avevo giurato a me stesso che non sarei mai più uscito dalla mia stanza, nemmeno per mangiare, visto quello che il mondo esterno aveva in serbo per me. Passavo il tempo con il mio istitutore, un noioso ometto di origini inglesi che non faceva che decantare le virtù della sua terra natale, oppure da solo, a leggere o a guardare dalla finestra quel mondo che mi aveva tanto deluso.

Di notte mi svegliavo spesso per incubi in cui un branco di lupi dagli occhi rossi m’inseguiva, facendo accorrere con i miei strilli o la balia, o mia madre, chi delle due faceva più in fretta. Dovevano rimanere con me finché non mi riaddormentavo e spesso s’infilavano nel mio letto per combattere il freddo della notte, cosa che mio padre non scoprì mai perché avrebbe senz’altro disapprovato. Non volevo che mi considerasse una femminuccia più di quanto già non facesse.

Poi, un giorno, arrivò Zwart e tutto cambiò.

 

Le due settimane di punizione erano ormai terminate, ma il mio stile di vita non si era modificato molto; soltanto, a volte, scendevo in giardino e mi rifugiavo sulla mia quercia a pensare. Quel giorno invece pioveva ed ero rintanato nella mia stanza, sdraiato sul letto a fissare il soffitto e a commiserarmi per la mia disgraziata situazione, quando la mia porta si schiuse scricchiolando e un cagnolino nero fece il suo entusiasta ingresso nella mia vita. Saltai a sedere sul letto, spaventato, perché per un attimo non mi ero reso conto delle sue dimensioni ridotte e avevo temuto che uno dei terribili lupi del mio incubo fosse riuscito a varcare il confine tra la realtà e il mondo dei sogni, ma mi resi ben presto conto che non era il caso di preoccuparsi: era solo un cucciolo di qualcosa di simile a un lupo, con enormi zampe ed enormi orecchie, completamente nero e molto, molto esuberante.

Mia madre si era affacciata alla porta e stava osservando la mia reazione: io guardai lei e poi il cane, m’inginocchiai sul pavimento e lo chiamai “Zwart”, “nero” nella mia lingua madre: fu la prima parola che mi venne in mente e Zwart sarebbe rimasto per sempre. Il cane si precipitò su di me e mi sommerse di effusioni e io, per la prima volta da settimane, sorrisi. Anche mia madre sorrise. Io corsi da lei e la abbracciai per ringraziarla, subito seguito dal cucciolo; si fece promettere che sarei stato io a occuparmene in tutto e per tutto e così sarebbe sempre stato.

Inutile dire che Zwart e io diventammo inseparabili. Giocavamo per ore, scorrazzavamo per tutto il giardino spesso con letali conseguenze per i fiori di mia madre e naturalmente dormivamo insieme, lui sul fondo del letto, io più su. Era un cane molto intelligente e molto educato, sembrava rendersi conto da solo di ciò che in casa era permesso o no. Quando eravamo a tavola, si accucciava ai miei piedi e non si muoveva finché non avevamo terminato; dentro casa non abbaiava mai, non rompeva mai niente e tanto meno sporcava. L’unica cosa che proprio non poteva sopportare, era il signor Winston, il mio istitutore inglese. Ogni giorno, al suo arrivo, ero costretto a chiudere Zwart in un’altra stanza per evitare spiacevoli conseguenze; Winston ne era addirittura terrorizzato e si rifiutava di entrare in casa se non gli assicuravamo che il cane, che nel frattempo stava crescendo a vista d’occhio e aveva un aspetto piuttosto minaccioso, era chiuso da qualche parte. Un giorno, tuttavia, Zwart riuscì chissà come ad aprire la porta della stanza in cui lo avevamo confinato e il povero signor Winston si trovò con cinquanta chili di cane ringhiante sullo stomaco. Era troppo, per quell’omino. Annunciò che non si sarebbe più presentato se non ci fossimo liberati di quel mostro, ma i miei genitori, che mi avevano visto rifiorire grazie a lui, non dovettero faticare troppo per prendere una decisione: il signor Winston fu licenziato e sostituito da una graziosa signorina di nome Aagath che non ebbe mai nessun problema di convivenza con il mio selettivo Zwart, anzi, salutava il cane prima di me, ogni volta che arrivava.

Grazie a lei anche le lezioni erano più interessanti e io ero molto contento, tutto sommato, della piega che aveva preso la mia vita. Anche il mio corpo sembrava giovarsi di tutti quei cambiamenti: iniziai in quegli anni una crescita vertiginosa che mi avrebbe portato in poco tempo a competere in statura con mio padre e mio fratello; acquistavo circa una decina di centimetri ogni anno, con disperazione di mia madre che doveva rifarmi il guardaroba ogni sei mesi per non farmi sembrare un idiota. La crescita in altezza, tuttavia, non andò di pari passo con la robustezza. A tredici anni ero una specie di cicogna con gambe lunghissime che spesso non sapevo dove mettere. Mio padre e mio fratello continuarono a guardarmi come un alieno ancora per un bel po’, soltanto come un alieno…alto.

Fu comunque un periodo molto bello, sicuramente il migliore della mia infanzia, e tutto grazie alla sensibilità di mia madre e a un enorme cane nero che sembrava sbucato direttamente dall’inferno.

 

Nel 1691, mio fratello Lars morì durante uno dei suoi viaggi, ucciso da alcuni briganti che avevano tentato di rapinarlo; fu la fine della mia infanzia e della mia tranquilla vita domestica.

Mio padre cambiò, devastato dalla perdita peggiore che gli potesse accadere. Smise di occuparsi dei suoi affari e di se stesso, smise di uscire di casa e divenne cattivo sia con me sia con mia madre, spesso sotto l’influsso dell’alcool che tracannava a litri, nel tentativo di sopportare il dolore straziante che lo divorava. Io lo capivo, avrei voluto stargli vicino e confortarlo, ma lui non me lo permetteva, così come non consentiva a mia madre di trovare in lui consolazione e conforto. Anche lei aveva perso un figlio, ma lui sembrava dimenticarsene quando la offendeva o, nel migliore dei casi, la ignorava. I miei ricordi di quel periodo sono fatti soprattutto di oscurità, quella che avvolgeva la casa per volere di mio padre, che non sopportava più la luce, e di silenzio, rotto solo dai suoi vaneggiamenti mentre si aggirava per le stanze, invocando il nome del figlio perduto.

A poco a poco, la servitù ci abbandonò. Erano tutti terrorizzati da quell’omone dalla faccia rossa e gonfia che perdeva il controllo per la minima infrazione, compresi io e mia madre che si era fatta ancora più piccola ed esile, come se la sofferenza se la stesse mangiando. Le uniche che ci rimasero fedeli furono Inga, la cuoca, che d’altro canto era vecchia e non avrebbe saputo dove altro andare, e Annika, la mia balia, terrorizzata all’idea di lasciarci soli con l’estraneo folle in cui si era trasformato mio padre. La sua ostilità verso di me era palese, anche se non ho mai capito che cosa, in me, gli dispiacesse tanto; durante una delle sue sfuriate arrivò a urlarmi che sarei dovuto morire io, invece di Lars. Sapevo che era così che la pensava, ma scoprire tutto quell’odio dentro il mio stesso padre fu un colpo difficile da digerire.

Non osò tuttavia mai toccarmi: Zwart non lo avrebbe mai permesso e mio padre lo sapeva. Gli bastava vederlo ringhiare al suo indirizzo quando alzava la voce con me. Io, piuttosto, vivevo nel terrore che facesse del male a mia madre o al mio cane, solo per farmi dispetto, quindi, anche se sarei voluto scappare lontano mille miglia da quella casa ormai stregata dal dolore, resistevo per lei, per essere presente se avesse avuto bisogno di me.

E l’occasione, purtroppo, si presentò prima di quanto avessi temuto. Non era strano, ormai, sentirlo urlare e inveire contro di lei, nemmeno fosse stata la responsabile della morte di mio fratello; quel giorno, però, i toni erano veramente minacciosi e fu la stessa Annika, preoccupata, a implorarmi di raggiungerli. Stavo salendo la scala, tallonato da Zwart, quando sentii mia madre urlare. Feci volando gli ultimi gradini e irruppi nella sua stanza, trovandola rannicchiata in un angolo, mentre mio padre torreggiava su di lei con il bastone da passeggio brandito a mo’ di clava. Con un grido, mi buttai su di lui, tentando di strapparglielo di mano, accecato dalla furia, ma lui mi respinse e decise di rivolgere le sue letali attenzioni verso di me. Zwart, che non aveva fatto altro che abbaiare per tutto il tempo, intuì le sue intenzioni e lo assalì, buttandolo a terra. Ora era lui a urlare, mentre tentava di colpire il cane e nello stesso tempo di proteggersi dai suoi morsi. Una voce dentro di me mi suggeriva di lasciargli finire il lavoro, per il bene mio e di mia madre, ma alla fine lo richiamai, salvando la vita a mio padre.

Lui, sanguinante e malconcio, si alzò da terra e mi fissò per un attimo: «Il tuo cane è morto, fosse l’ultima cosa che faccio» disse, poi lasciò la stanza mentre io aiutavo mia madre, sconvolta, a coricarsi sul letto. Rimasi con lei, accarezzandola e tranquillizzandola, fino a che non si addormentò, come tante volte aveva fatto lei con me.

Quella notte, mentre me ne stavo seduto su una poltrona accanto al suo letto con Zwart accucciato ai miei piedi, mia madre si svegliò e mi fece segno di raggiungerla. Mi sedetti accanto a lei e l’accarezzai sulla guancia, cercando di sorriderle.

«Devi andartene, Raistan, stanotte. Tuo padre non è più la persona che ho sposato, quell’uomo è morto con tuo fratello, su quella maledetta strada. Non voglio che succeda qualcosa di brutto anche a te, non potrei mai perdonarmelo. Apri quel cassetto…» Indicò il suo comodino: dentro, tra fazzoletti profumati e camicie da notte, spiccava un sacchetto di pelle marrone, chiuso con lacci. Se lo fece dare e lo aprì. «Qui ci sono venticinque fiorini d’oro. Non è molto, lo so, ma li ho messi da parte per te in questi ultimi mesi, temendo che questo momento sarebbe arrivato. Prendili e vai via, stanotte stessa. Non andare ad Amsterdam, i parenti di tuo padre potrebbero trovarti e riportarti indietro; vattene dall’Olanda e non tornare più in questo luogo infelice.»

Io stavo piangendo, scuotendo la testa per cancellare le sue parole. L’idea di abbandonarla lì, in balìa di quell’uomo, mi sembrava intollerabile. Lei mi prese il viso tra le mani e m’impose di guardarla. Sembrava che tutta la sua forza si fosse concentrata in quel gesto disperato. «È tua madre che te lo ordina, ragazzo. Obbedisci e basta!»

«Non posso! Non posso lasciarvi qui con quel pazzo! Venite con me, vi supplico, possiamo cominciare da capo da un’altra parte, lui vi ucciderà, alla fine. Per favore, mamma, vi prego…»

La abbracciai stretta, piangendo disperato, ben sapendo che non sarei mai riuscito a convincerla; anche lei si era arresa, l’unica speranza che le rimaneva era salvare almeno uno dei suoi figli.

«Non ti preoccupare per me, io starò bene. Vedrai che tuo padre si calmerà, prima o poi, e le cose torneranno a posto. Certo, nessuno ci potrà restituire Lars, ma…ce la caveremo. Tu però devi andare. Non c’è futuro, qui, per te, l’ho persino sentito parlare di un monastero in cui vorrebbe spedirti. Prendi i soldi e il tuo cane e vattene, adesso! Ti prego Raistan…Ti prego, mijn Engel.»

Mi accarezzò i capelli e il viso, poi mi sospinse verso la porta. Un attimo prima che uscissi dalla sua stanza con Zwart e il cuore a pezzi, mi richiamò e mi sorrise un’ultima volta. «Sei stato il figlio migliore che una madre possa desiderare. Grazie, davvero.»

«Grazie a voi, mamma…» sussurrai e lasciai per sempre la sua stanza, con la morte nel cuore.

 

È tardi, rischio di mancare al mio appuntamento con Sophie. Lei è un’umana, sapete, l’ho conosciuta in un locale alcune settimane fa. Ci tengo a lei, mi piace, mi diverte e mi rilassa e vorrei continuare a vederla, ma sono stanco di fingere. Vorrei che sapesse quello che sono realmente, ma non so come la prenderà. Inoltre sono terribilmente fuori allenamento, per quanto riguarda il corteggiamento. Devo prepararmi e cenare, prima di incontrarla, per non rischiare di metterla in pericolo.

A più tardi, curioso lettore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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